venerdì 23 agosto 2013

Noi Saremo Tutto

"La velocità è il senso della vita, il senso della vita è la velocità"
 La Velocità
Il Pan Del Diavolo




Immaginate di non essere voi stessi.
Immaginatevi nei panni di due esseri umani totalmente distanti tra loro, agli antipodi di qualsiasi cosa vi venga in mente.
Immaginatevi nei panni di un importante broker newyorkese (soggetto n°1). Anzi molto meglio dell'immaginazione vorrei che usaste l'immedesimazione; voglio che sentiate sulla vostra pelle la morbidezza del completo tre pezzi Armani da 5000 US Dollars, che sentiate la brezza marina della City attraverso il vostro perfetto e costosissimo taglio di capelli, che sentiate l'odore degli interni della berlina Lexus nuova di pacca che viene a prendervi nell'atrio della vostro megaloft in Upper East Side, per portarvi al lavoro, nel cuore della City, Manhatthan, il ventre della bestia.
Facile vero? Anni e anni di retorica televisiva e/o narrativa rendono facile l'immedesimazione, ti immagini bello, elegante, profumato.
Ora, con le meningi ancora toccate da questo idillio, senza perdere la concentrazione necessaria, immedesimati in un campesino dell'america centrale (soggetto n°2), che si sveglia dopo un sonno di appena quattro ore, con le membra ancora squassate dalle 15 ore di lavoro del giorno prima, pensa al poncho usato come giaciglio, alla colazione costituita da un bicchiere di latte di capra e una foglia di coca, al carretto dello zio Josè che passa a prenderti per portarti alla piantagione. Non importa cosa coltivi o quale sia la piantagione, che sia del Cartel o di una multinazionale, se le colture siano piante di coca, marijuana o banane: la fatica è la stessa, il sudore è lo stesso.
D'un tratto ragionate sulla sequenza temporale di gesti e parole che socialmente definiamo lavoro, ma mantenete attiva nei lobi prefrontali del vostro cervello la dicotomia appena immaginata. Da un lato segretarie fighe e Consigli d'amministrazione su grandi tavoli di noce, dall'altro la terra, il sudore, il sole.
Non mi interessa, caro lettore, il tuo frame, il tuo decoder semiotico; non mi interessano le lenti costituite dalla tua esperienza e dalla tua ideologia, attraverso le quali guardi alla realtà e crei la tua interpretazione di ogni fatto, ciò che mi interessa è solo la velocità con cui i due soggetti effettivamente producono qualcosa. Il n° 2 pianta un seme oggi che ci metterà anni a divenire un albero dal quale ricavare qualche frutto, prodotto che non apparterà al campesino che lo ha coltivato e che quindi non potrà econometricamente ricavare nulla dagli anni spesi a lavorare la terra. Ecco l'alienazione. Non la noia di un movimento ripetitivo tipo catena di montaggio (con cui da anni si costruisce una narrazione tossica intorno a Marx), ma l'alienazione vera, quella tra il salariato e l'oggetto del suo lavoro, tra la merce e chi l'ha prodotta.
Ecco la metafisica del denaro, non olet, non ha provenienza, una volta che finisce nel grande circuito mondiale del libero mercato perde ogni connotazione fisica. Una volta che abbastanza denaro è stato accumulato, un bene materiale, una dimensione fisica, sparisce, perde ogni proprietà meccanica, con una legge che potremmo tranquillamente definire direttamente proporzionale alla quantità di denaro accumulato. Chi ne possiede tanto si è liberato dalla fisicità del denaro stesso e lo ha trasformato in altro, ed una volta che lo ha fatto, la velocità con cui riesce a produrre altro denaro a partire dal denaro stesso è freneticamente oscena. In pochi secondi, in qualche frammento di Mbyte su un computer aziendale, le piccole variazioni di un titolo in borsa sono in grado di generare utili spaventosi, plusvalenze enormi per alcuni, mentre condannano alla miseria programmata interi paesi.
Un'altra volta, caro lettore, non sono interessato a suscitare in te una reazione di qualsiasi tipo, voglio solo che un lato del tuo cervello pensi all'enorme quantità di ricchezza accumulata da qualche migliaio di individui o corporazioni, siano essi multinazionali o cartelli della droga o monarchi o dittatori o semplici ereditieri con una spiccata predisposizione al pornoamatoriale. L'altro lato mantienilo concentrato sulla velocità: secondi per generare miliardi di US Dollars, anni per generare una pianta.
Da questa dicotomia non si scappa, non c'è via di uscita, non è Matrix, anche se gli somiglia abbastanza. Un sistema perfetto, dolce e subdolo allo stesso tempo, che narcotizza con il benessere per risucchiarti ogni passione ogni forza vitale, ogni energia che potrebbe essere usata in una maniera che il tempo capitalistico troverebbe non opportunamente produttivo. 
Dai contrasti usati sopra, dalle dicotomie che formano "i punti di sutura" mitologici, origina il titolo del post, il titolo dell'omonimo libro di Evangelisti, lo slogan usato dal sindacato/partito IWW, Industrial Workers of the World, che nell'America degli anni '20 sosteneva i diritti degli Wobblies, lavorotari (spesso migranti) con pochissimi diritti, schiavizzati dalle nascenti corporazioni americane -è interessante notare un'altra dicotomia tra i Ruggenti anni '20 popolari nella cultura mainstream, fatti di canzonette e reggicapelli piumati vs. i veri anni 20 fatti di pochi diritti, tante botte da parte di polizia e gunthugs mafiosi, vero e proprio braccio armato dei "capitani di industria", vedasi caso di Nick Sacco e Bart Vanzetti; ogni riferimento all'epoca odierna è voluto e non casuale-.


Noi Saremo Tutto è uno slogan potentissimo, da ripetere come un mantra, un antibrand che poggia la sua potenza su un concetto tanto semplice quanto poco visibile: l'a-temporalità. Prendete ad esempio slogan posticci tipo "se non ora quando" di saviana memoria, il motto è già la condanna a morte del movimento. Noi saremo Tutto non ha tempo, non ha spazio, è inelettubile (non si può scappare dal Tutto), è minaccioso quanto basta e sopratutto interrompe la meccanica temporale del capitalismo, poichè il futuro semplice del verbo essere lo pone avanti indefinitamente nel tempo, lo cristallizza nel futuro, una dimensione non fisica, non prevedibile.
In un sistema definito caotico l'unica certezza sono le condizioni iniziali poichè gli unici modelli attendibili sono di tipo stocastico, quindi probabilistico ovvero: potrebbe succedere x, ma anche y. La realtà potrebbe essere considerato il più caotico dei sistemi, anche se spesso ci sembra prevedibile e routinaria, governata da legge e ordine invece che da imprevedibilità e casualità, ma ciononostante sembra impossibile trovare un modello probabilistico realmente funzionante con la nostra vita a causa delle troppe variabili e troppe insicurezze.


Ma se per un attimo, per un solo secondo, dopo tanto sforzo di immaginazione, alla fine di questo lungo ed inutile post, immaginando voi stessi nei panni di qualcun altro che conoscete bene, rivendicando la vostra possibilità di dare dell'IO a qualcun altro, calandovi, ancora una volta, nei suoi panni, nei suoi problemi, nelle sue aspettative (che scoprirete non essere molto lontane dalle vostre), vi ripetete dal SUO punto di vista: "noi, saremo tutto" forse correte il rischio di sentirvi meno insicuri e magari avrete trovato una piccola costante.

martedì 11 giugno 2013

Ogni storia d'amore è una storia di fantasmi




Ho imparato che il mondo degli uomini così com'è oggi è una burocrazia. È una verità ovvia, certo, per quanto ignorarla provochi grandi sofferenze. Ma ho anche scoperto, nell'unico modo in cui un uomo impara sul serio le cose importanti, la vera dote richiesta per fare strada in una burocrazia. Per fare strada sul serio, dico: fai bene, distinguiti, servi. Ho scoperto la chiave. La chiave non è l'efficienza, o la rettitudine, o l'intuizione, o la saggezza. Non è l'astuzia politica, la capacità di relazione, la pura intelligenza, la lealtà, la lungimiranza o una qualsiasi delle qualità che il mondo burocratico chiama virtù e mette alla prova. La chiave è una certa capacità alla base di tutte queste qualità, più o meno come la capacità di respirare e pompare il sangue sta alla base di tutti i pensieri e le azioni. La chiave burocratica alla base di tutto è la capacità di avere a che fare con la noia. Di operare efficacemente in un ambiente che preclude tutto quanto è vitale e umano. Di respirare, per così dire, senz'aria. La chiave è la capacità, innata o acquisita, di trovare l'altra faccia della ripetizione meccanica, dell'inezia, dell'insignificante, del ripetitivo, dell'inutilmente complesso. Essere, in una parola, inannoiabile.”


Così scriveva David Foster Wallace nel Re Pallido.
Nella letteratura o nella cinematografia (più in generale nel'immaginario collettivo) il fantasma è, anche esteticamente la rappresentazione plastica della mancanza, dell'assenza. Il fantasma è etereo, incorporeo, il suo corpo intangibile non può essere toccato dai “viventi” (le virgolette le capirete dopo), la sua presenza è spesso quella dell'osservatore immobile. Nessuno spettro apparizione o fantasma propriamente detto può interagire con la materia sensibile poichè appartiene ad un mondo Oltre-il-nostro, nel quale non esiste la dimensione fisica, ma solo quella metafisica. Nella sua condizione il fantasma ,che appare in letteratura o nella fiction, è spesso legato ad un ruolo che a fare con la sua “vita” precedente: questioni irrisolte, vendette, oppure un ruolo pedagogico, da “angelo custode”, da consigliere sulle cose-della-vita. Non vi può essere apparizione spettrale senza una mancanza, una perdita. Che sia un argomento futile o profondo, il trauma da cui origine tale perdita, c'è un filo comune che lega tutte le apparizioni spettrali, la volontà di mettere le cose a posto, di farle funzionare, di riuscire a dare un senso alla vita anche dalla non-vita. In fondo ogni fantasma è un promemoria non-vivente del tempo mancante, della caducità della condizione umana e del disperato tentativo di colmare i vuoti di uno stile di vita sempre più alienante.
Oggi non si può fare un analisi semiseria e assolutamente gratuita sugli esseri spettrali senza guardare al nostro tempo, alla nostra realtà. Nella “vita” di oggi i corpi sono sfruttati continuamente, dalle condizioni di lavoro umilianti, ai centri-tempio del fitness; da chi usa i corpi come merce a chi vorrebbe dargli un valore esclusivamente economico. Sia ben chiaro che non esistono solo esempi negativi, c'è anche chi usa il proprio corpo per migliorare le proprie condizioni o quelle degli altri, chi lo usa per difendere qualcosa o qualcuno (anche quattro alberi in un parco storico), solo per citare alcuni esempi. Ma in pochi si concentrano sulla perdita, sulla mancanza. Ed ecco che oggi il fantasma che appare all'ignaro e savissimo protagonista, non è più un fatto soggettivo, che riguarda esclusivamente le storie personali dei soggetti in causa, oggi il fantasma non può esimersi dal ruolo di esempio, di monito, e ha sempre a che fare con l'alienzione della nostra specie. Nella sua temporalmente infinita non-vita il fantasma ci ricorda di cogliere ogni attimo, di viverlo fino in fondo. Nella sua incorporeità il fantasma ci ricorda di mettere in gioco anche i corpi oltre che le menti. Nel mondo dei socials l'apparizione spettrale ci ricorda (come faceva DFW) il paradosso del nostro tempo, fatto di persone continuamente online e profondamente disconnesse le une dalle altre.
La “vita” feticizzata in una delle sue declinazioni commerciali non appartiene più allo spettro, che libero dalla società dei soggetti catturati e degli oggetti posseduti, acquisisce una nuova prospettiva che, liberata dall'azione, si concentra sull'essenziale; cosa ci può essere di essenziale per un essere senziente ma non-vivo? Proprio quella vita che oggi, continuamente, derubrichiamo ad oggetto. Proprio quella vita che molti di noi oggi stanno perdendo guardando lo schermo colorato di uno smartphone, invece di guardare negli occhi la persona che hai davanti.  


venerdì 29 marzo 2013

Qualcuno si è perso



C'è qualcuno che si è perso.
C'è qualcuno che ha perso la strada, qualcun altro la casa.
Bisognerebbe ragionare su cosa vuol dire perdere la casa, se ci stiamo riferendo all'atto dello smarrire le chiavi o vedersi pignorare l'abitazione.
C'è chi perde il lavoro. Chi perde la macchina, chi la fidanzata, chi perde un figlio. 
In fondo c'è gente che ha perso tutto e ormai non si ricorda neanche più ciò che aveva perso. 
Io non so che cosa ho perso, ma sono abbastanza sicuro di aver perso qualcosa; non so quando è successo, non me lo ricordo oppure non l'ho mai saputo, ma per certo so che mi manca qualcosa. Se sia qualcosa che ho proprio perso piuttosto che qualcosa che non ho mai posseduto non te lo so dire, resta il fatto che se uno non riesce neanche a focalizzare ciò che ha smarrito neanche può essere tanto sicuro di aver perso qualche cosa. E' una sensazione strana. Ti lascia un pò vuoto, un pò straniato.
Poi ad un tratto, a volte, la consapevolezza ti prende alle spalle, ti stende con la forza di un pugno nelle reni, ti fa rendere conto all'improvviso che cos'era quello che ti sei perso. Mi sarà capitato centinaia di volte nella vita, di essere preso a pugni dall'improvviso ricordarsi di qualcosa. Il dentista una volta, un compleanno un' altra etc etc. Anche fisicamente mi porto una mano allo fronte in un piccolo gesto di autopunizione, dandomi un leggero ma sonoro schiaffo: "ma porc....". Eppure ripensandoci ora, che penso di non aver scordato niente, non sono del tutto sicuro di ricordarmi se e che cosa ho perso.
Questa in fondo è una condizione comune al giorno d'oggi.
Se osservi i tuoi simili muoversi nella sicurezza di un ambiente affollato, come può essere un centro cittadino o un supermercato all'ora di punta, ti accorgi che tutti sembrano indaffarati, camminano da soli o in gruppo, ma si muovono svelti, determinati verso il loro obiettivo, verso la loro meta. E' solo quando li guardi attentamente, spogliandoti della fretta e della meta che ti accorgi che tutti, ma proprio tutti, sono così frenetici perchè cercano quello che si sono persi. Non importa se li osservi mentre mettono un pacco di biscotti nel loro carrello o se si accendono una sigaretta accanto a te, aspettando che il semaforo diventi verde per i pedoni. Non importa quanto esteriormente appaiano calmi, concentrati, sicuri, sono tutti mancanti di un qualcosa, mutilati da una leggera imperfezione; se provi a fermare qualsiasi persona in mezzo ad un gruppo affollato di gente sconosciuta per porgli una domanda semplice del tipo: "Scusi potrebbe mica dirmi che ore sono?" o "Gentilmente avrebbe da accendere?", avrai come risposta un gesto sbrigativo condito da monosillabi. In men che non si dica ti ritroverai di nuovo a fissare il movimento intorno a te mentre il tuo interlocutore avrà già preso il largo diretto alla sua meta. La fretta è il collante di ogni luogo affollato, il tessuto connettivo tra gli strati sociali. Se pensi a quanto la fretta sia così implicitamente accettata come costume sociale, come base di ogni relazione sociale con sconosciuti, potrebbe stupirti la facilità con cui sia entrata anche nella tua vita. La fretta, la velocità, che sembrano essere diventate la vita stessa, non sono altro che un sintomo causato dalla perdita.
A questo punto sarebbe anche lecito chiedersi: ma da che cosa deriva la perdita e la fretta di colmare questo vuoto?
E qui sarebbe lecito rispondere che è impossibile stabilirlo con precisione.
E' impossibile con metodo scientificamente approvabile, riprodurre l'insieme di cause che hanno portato l'homo sapiens sapiens ad evolversi nell'homo celerens. A noi rimane solo il sintomo, un archetipo junghiano che si agita all'interno della coscienza collettiva, che pulsa ad un ritmo sincrono a quello del progresso e dell'overdose informativa. Un archetipo 2.0, più social, che invece di costruire nella massa una struttura psicologica collettiva, de-costruisce ciò che abbiamo accumulato per generazioni; estende il tempo ad un presente eterno, ad un secondo infinito, ad un attimo perpetuo. Da un lato seduce chiunque bisbigliando al subconscio parole melliflue, con schemi ben precisi di evoluzione, ma dall'altro feticizza l'esistenza stessa.
Ed è forse proprio questo il punto di origine de "La Perdita", il peccato originale della mancanza. Oggi identifichiamo la vita con uno dei suoi molteplici feticci, condensiamo l'esistenza in una sola delle sue molteplici declinazioni. E' forse proprio questa la causa che da origine a questa specie di disabilità nella coscienza collettiva, i cui effetti sono lo smarrimento ed il dover accelerare continuamente per cercare di riempire i vuoti. Insomma si potrebbe dire che tutto origina dalla nostra umana compulsione a possedere oggetti e a catturare soggetti.
Quindi la prossima volta che chiederai l'ora ad un estraneo o camminerai in un luogo caotico ed affollato, fermati. 
E' facile rendersi conto che da fermi si gode di una prospettiva assolutamente antigerarchica, quasi zen. 
E' facile rendersi conto che da fermi è molto difficile perdere qualcosa e anche se dovesse capitarti è molto probabile che ritrovi subito ciò che avevi perso.

giovedì 17 maggio 2012

#qchenonho, la cultura in HD e la "K"crazia dell'Aidoru


@AndreaScanzi noto "Pain in the Ass" dei programmi fabiofazisti, lo descriveva, in questo articolo dell'altro ieri, con dovizia: Quello che (non) ho (non) ha lasciato il segno.
Sostanzialmente, all'autore di questo post, non interessano le motivazioni riguardanti la fenomenologia fabiofazista (ben nota ed affrontata nel corso dei lunghi anni di Che Tempo che Fa) e nemmeno la pseudo-santificazione di Saviano (che avrà pure dei toni eroici nei suoi monologhi, ma riesce quasi sempre ad essere interessante), bensì analizzare il riflesso del programma nello specchio della società, per (tentare di) capirne le dinamiche profonde.
Al fin di evitar fraintendimenti, l' autore di questo post, ci tiene a chiarire che l'idea generale del programma -d'ora in avanti format- non è né sbagliata né scontata, anzi ambiziosa. La sua ambizione risiede nel portare al centro dello schermo televisivo dei meccanismi chiaramente anti-televisivi: il monologo e la risomatizzazione (intesa come riparazione) delle parole; questa forzatura viene infatti a pesare sulla scaletta del format il cui ritmo risultava ridondante, goffo e poco dinamico -ciò sembra ancora più strano all'autore di questo post dal momento che i ghost-writers del format erano Michele Serra e Francesco Piccolo, noti parolieri-.

Retorica
L'apoteosi della retorica, a metà strada tra una messa (commento più volte twittato durante la diretta) ed una brutta lezione universitaria di pedagogia generale. Il tono patinato e condiscendente di fabiofazio (non certo una novità) si adagiava su un generale senso paternalistico proprio della bildung più integralista (il saggio vs. i discepoli), condito con un pizzico di ineluttabilità (siamo tutti messi male). I momenti drammaticamente noiosi erano proprio quelli in cui si alternavano Grandi Personalità della Cultura, mentre quelli più toccanti erano quelli in cui persone semplici ri-somatizzavano le loro semplici parole. La stessa scelta delle parole usate, come quella delle personalità invitate, sembrava scontata e un pò troppo mainstream; per quanto a tutti faccia piacere vedere Elio Germano o Favino, o sentir parlare una staffetta partigiana -peraltro quasi conterranea dell'autore di questo post-, la monotonia era tastabile. I soggetti dei monologhi di Saviano, sempre desiderosi di raggiungere più persone possibile, incominciavano a essere pedanti e vagamente cerchiobottisti -all'autore di questo post pareva matematicamente netto il bilancio tra riferimenti al nuovo fascismo (Lega, AlbaDorata) e quelli al vecchio comunismo (Cina, e Lagoi) con una netta propensione a soffermarsi più su questi ultimi-; parole "scomode" venivano volutamente rimosse -FIAT, Esodati, Operaio- mentre altre parole "inerti" venivano sovraccaricate -Mercato, Sempre, Orizzonte, Scarpe- in un futile tentativo di elevarle a nuova narrazione del contesto sociale odierno. A causa di questo habitat, fortemente inibitorio, sono state depotenziate anche personalità come Travaglio o Paolo Rossi -con sommo dispiacere dell'autore di questo post che adora il sig. Rossi in maniera morbosa- carismaticamente forti e capaci di creare quel genere di tensione che avrebbe rianimato il format. Le uniche vere antipatie sono state:
  1. Luciana Litizzeto, orribile in tutte e tre le giornate, qualunquista all'inverosimile -l'autore di questo post sa bene cosa è un tanga e cosa è un brasiliano, grazie tante!-, con il minimo assoluto raggiunto, ieri sera, dalla frase "....Io non sono razzista, MA [questi immigrati] facciamoli lavorare a casa loro!" (come dire io non sono fascista, ma boia chi molla!!).
  2. La compulsione, ossessiva e morbosa, per Fabrizio de Andrè e per la sua canzone omonima (o quasi) al titolo del format; compulsione chiaramente di origine fabiofazista.
Cultura in HD
Nelle calde giornate di #macao il contrasto visivo (ma anche estetico) tra gli intellettuali partecipanti al format, ammantati nella patinata luce dell' HD, impegnati a promuovere una Cultura -maiuscola- saccentemente accademica, e la  voglia di nuovi spazi e temi della piazza di Milano sembrava incolmabile. La gente in piazza, "sporcata" dalla low quality dei video amatoriali, dall'audio basso e incasinato, senza bisogno di alcun ghost-writer, rusciva ad esprimere una carica emotiva ed una dinamicità assurde, senza paragoni. Non è un caso se la protesta spontanea non trova spazio nelle tre giornate di #qchenonho, nonostante il fine sia il medesimo: la promozione della cultura come evento pop (nel senso di popolare). Ed ecco quindi spiegato il senso della critica più feroce rivolta sia al format, sia ai suoi autori/conduttori: la noia originata da una "sehnsucht" del telespettatore più critico, che, affascinato dal gioco dei contrari in Vieni Via con Me  (Fazio/Saviano, Cultura/Spettacolo, Ridere/Piangere), -che all'autore di questo post (non) era piaciuto- storce il naso di fronte all'evidente disparità tra il "nuovo" format e la realtà che lo circonda. La fotografia smarmellata in HD  è il frame che meglio rappresenta questo disavanzo, la distanza tra la possibilità di immaginare nuove narrazioni ed un'espressione artistica confezionata come prodotto o format (per quanto sempre arte e cultura sia) che non può che essere percepita passivamente. In questa dicotomia si inserisce una specie di "macchina della paranoia" -o meno questa è l'impressione che ha avuto l'autore di questo post, grande fan di Philip K. Dick- che porta con sé un senso di claustrofobia, dovuta forse anche ai toni retorici di cui sopra, ed un vago senso di apocalisse incombente (cassandrismo lo definisce @AndreaScanzi), in cui l'unica via d'uscita sembra essere l'affidamento al "Saggio" di turno ed alla sua visione della realtà

La "K"crazia
Ovvero come la timeline dell'hashtag #qchenonho è divenuta difatto una realtà distopica, nella quale il teletwittatore che esprimeva la minima critica veniva trattato come "qualunquista" se non peggio (non tutte le critiche erano motivate naturalmente, ma possibile che tutti quelli che criticavano avessero torto?). Il teletwittatore pro-#qchenonho si autocelebrava nei commenti, chiedeva a gran voce di fare un format del genere ogni sera -"sai che palle" si immaginava l'autore di questo post-, ammoniva i non allineati e proponeva di occupare La7 -avete letto bene-. Il risultato era una specie di concezione vagamente dispotica dell'evento, nella quale chi aveva motivi (leggitimi o no) per non apprezzare il format, non avrebbe dovuto neanche guardarlo. Che sia qualcosa di più di una semplice impressione si evince dalla non-risposta di  Saviano a Ferrara, -l'autore di questo post prova obbrobbrio alla sola vista del giornalista oversize, ma dal momento che si predica il pluralismo si risponde a tutte le critiche- che sdogana nel telespettatore un sacro ed infervorato concetto di superiorità, che lo pone al riparo da ogni critica. Ecco la "K"crazia. La convizione assoluta che ciò che si sta facendo "è indubbiamente e moralmente giusto", la concezione figlia del cristiano  concetto di BENE sopra ogni cosa; la pretesa di pensare al duo Fazio/Saviano come il solo baluardo contro le tenebre dell'ignoranza televisiva, risulta tale e quale a quella del bimbominKia che si sciupa in commenti offensivi (pieni di K) contro chi mette in dubbio il suo AIDORU  (idolo in giapponese). Psicologicamente in questa concezione è insito l'afflato subcosciente dell'internauta, che davanti all'ignoto, rappresentato dalla vastità del cyberspazio, ricerca un' icona (spesso carismatica) in cui riversare le sue aspettative, capace di annullare il "desiderio di morte" (fenomenologia del Grillismo). Saviano è vittima di questo processo, nel senso che a causa di elementi non dipendenti dalla sua volontà (il rischio di morte, la vita sotto scorta, la popolarità), è costretto a ricoprire il ruolo di oracolo, al quale affidarsi per decifrare la realtà ed immaginare il futuro (immaginatevi l'oracolo di Matrix, la dolce signora dei biscotti che non vorrebbe dare brutte notizie a nessuno).

Certamente Twitter esisteva anche prima di #qchenonho, ma il suo recente sviluppo in termini di numero di utenti, la sua struttura basata sul contenuto e non sul profilo, ne fanno uno strumento potente in grado di generare nuove narrazioni di lotta, si veda l'hashsquatting nervi #saldi ad opera del Wu Ming, ma anche in grado di  generare luoghi comuni e retorica mainstream a profusione. Capace anche di idolatrare preventivamente uno show televisivo (si vede da commenti del tipo: "non è ancora cominciato [qchenonho] e siamo già TT mondiale").
Lo stesso Saviano cade nel luogo comune di considerare i Socials come terapia contro l'ingiustizia globale, elogiandoli per la loro utilità durante la primavera araba -l'autore di questo post si immaginava Mr Zuckerberg in kefia e AK nel deserto libico- ma dimenticandosi di dire che sono stati i ribelli a fare la Primavera e non i Socials; in seguito in preda ad un pizzico di delirio megalomane (che è sempre in agguato con gli Aidoru) si augura di riuscire a cambiare il vocabolario italiano, aggiungendovi la parola Laogai (e compiacendosi quando questa diventa TT italiano in pochissimo tempo) 
In fin dei conti, per la mia natura, sono portato sempre ad essere empatico verso l'oppresso e mai verso l'oppressore, motivo per il quale mi intristisco nel vedere Saviano invecchiato da un ruolo, che neanche lui vorrebbe avere.

mercoledì 16 maggio 2012

Perchè #M^c^o fa paura al potere?


Perchè?
E' la domanda che più persone si ponevano ieri pomeriggio.
"Perchè?" Si chiedeva una ragazza coi dreads "Perchè Ligresti lo rivuole sto cazzo di palazzo, non glie ne fregava niente fino a domenica scorsa, è stato quindici anni in disuso!!".
Uno dei pochi pochi casi al mondo in cui nella domanda è già contenuta la risposta: non gliene fregava un cazzo fino a quando alla ragazza coi dreads non gliene fregava un cazzo.
Veloce cronologia della giornata:

  1. alba: arrivano i cops
  2. poi si effettua lo sgombero senza particolari tafferugli
  3. poi arriva Dario Fo, pioniere delle occupazioni come forma artistica di protesta e con una lucidità incredibile usa la metafora del pezzo di pane per rispondere alla ragazza coi dreads
  4. poi si organizza come forma di protesta una assemblea permanente davanti a M^c^o
  5. poi arrivano vari artisti più o meno famosi a portare la  loro solidarietà
  6. poi arriva B. Rizzo che difende gli occupanti sgomberati
  7. poi si continua l'assemblea mentre arriva sempre più gente
  8. poi arriva il Sig. Sindaco e promette una nuova area per continuare il progetto nato con l'occupazione della torre Galfa
  9. infine la sera concerto pubblico, palco, etc etc
Al di fuori della cronologia degli eventi, che ha il solo scopo di chiarire a grandi linee come si è svolta la giornata, la cosa sulla quale il sottoscritto poster vorrebbe che si soffermassero le altrui coscienze è la velocità intercorsa tra la "Presa" della torre Galfa ed il suo sgombero (poco più di una settimana). Certo, direte voi altrui coscienze, in una città come Milano in cui il fenomeno delle occupazioni di spazi sociali è ostracizzato aspramente (vedi Bottiglieria) non dovrebbe stupire che il Sig. Ligresti, resosi conto di quanto stava per accadere, abbia fatto pressioni su Prefettura & C. per liberare il palazzo che attraverso una sua società gli appartiene. Non dovrebbe stupire le altrui coscienze neanche il fatto che una palazzina di 21 piani inabitata da 15 anni fosse reclamata come urgente dal suo proprietario de facto, tuttavia esiste un aspetto significativo, che nei vari tiggì, locali e non, che parlavano ieri dell'argomento è rimasto inespresso: lo sgombero era un pretesto, una provocazione (ovviamente), ma il vero motivo della repentinità dell'azione dello Stato è stato la paura. Come lo stesso Dario Fo prova a spiegare : "questi si sono cagati sotto".
ed eccoci di nuovo alla domoanda del titolo: perchè paura? perchè in meno di una settimana M^c^o è stato visitato da una media di 700 persone al giorno, partendo dal centinaio che l'hanno occupato ed arrivando a domenica scorsa ad un totale di più di duemila persone; perchè ad una struttura decrepita e senza niente (elettricità, tubature, a volte finestre) si stavano interessando persone comuni (giovani, famiglie, artisti) ed anche celebrità (Picco, Fo, Bignardi etc); perchè come si evince dai video di M^c^o Vox Populi durante le Passeggiate Verticali si incontrava dalla famiglia alla signora Nostalgica, dal giovane "alternativo" (odio questa parola) al fotografo curioso, ed in poco tempo tutta queste gente stava diventando consapevole delle potenzialità offerte da uno spazio pubblico di natura oscenamente proletaria.
Il solo fatto di essere consapevole della Potenza (non a caso in maiuscolo) che esercitava l'occupazione e la rivendicazione di un luogo dove promuovere la cultura (non a caso in minuscolo) a 360°, senza borghesismi accademici o luoghi formali di rappresentazione, faceva scattare qualcosa al visitatore, qualcosa di profondo ed intenso.
Se pensiamo al mare come metafora junghiana del subconscio, imamginatevi M^c^o come metafora del superego. La vecchia, decrepita e malandata palazzina suscita nel passante, così come nell'occupante, l' idea che attraverso l'espressione artistica (o meglio la technè degli attori tragici greci), di qualsiasi natura o forma essa sia (anche scrivere con un pennarello una poesia su un muro), si stia PRODUCENDO cambiamento. In maniera effettiva, reale.
Il Progetto M^c^o rende facile a chiunque partecipare, contribuire alla condivisione del bisogno di arte e di spazi nuovi dove rappresentarla. Costringe chiunque ne senta parlare a scegliere una parte; ti obbliga ad essere parte attiva in un processo. Ti costringe a fare i conti con la voglia biologicamente umana di conservare l'equilibrio raggiunto, e quella metafisicamente umana di esplorare l'ignoto; ti scuote perchè ti mette davanti ad una realtà che è costruita sulla coscienza collettiva e ti invoglia a essere più partecipe perchè il tuo ego ne HA BISOGNO: vero e proprio doping per il tuo spirito critico.
Ed ecco perchè Pisapia è corso ieri a tranquilizzare il popolo di M^c^o (".....Il Comune vi darà un altro spazio...."), perchè le menti erano sveglie ed incazzate; le stesse che hanno sostenuto Pisapia e l'idea sulla quale ha vinto le amministrative:  Io sono il cambiamento. Il Sindaco ha capito che si stava giocando una partita politicamente importante e si è precipitato ad offrire nuovi luoghi al Progetto (di nuovo paura).
La paura deve aver attanagliato anche Ligresti sia livello superficiale, sia ad un livello più profondo: superficialmente la paura di non riottenere la sua proprietà "inutilizzata" e quindi di perdere parte del fondamento del proprio potere (ovvero la percezione che si ha dello stesso). L'effetto immediato di questo processo è quello di produrre una risposta esagerata come manifestazione della propria capacità di influenza: "chiamo il Prefetto, il Sindaco, il Questore e vi faccio sbattere fuori"; che ricorda molto il bambino che non sapendo bene giocare a calcio urla: "il pallone è mio e non si gioca più".
Inconsciamente però si deve essere sentito come l'Uomo davanti alla giungla tropicale di Lorenz, oppure l'Uomo davanti allo spazio profondo di Ballard.
Impaurito.

martedì 14 giugno 2011

Post Narrativo Non Identificato

"qua diventiamo come un accampamento di zingari" dice.
dice "ci ruberanno il lavoro, i suv e ci svaligeranno le case"
"ma chi?" ribatte la ragazza. "ma come chi? ma ce li hai gli occhi?" dice lui. è arrabbiato. mentre mangia il pansotto. il sugo gli cola sul mento, gli sporca la camicia bianca e gli unge la cravatta verde. tira fuori un fazzoletto verde dal taschino della camicia si asciuga, se lo passa sulla bocca e sul naso e so lo rimette nel taschino piegato come prima.
lei lo guarda, faccia liscia, senza emozioni. è bella, bionda e vestita di grigio, occhiali stretti alla moda e scarpe basse.
del pansotto rimangono solo tracce di unto sulle dita che vengono pilucatte rumorosamente. un perfetto finale per il passaggio da stato solido a poltiglia, condito con saliva. soffocando un rutto continua "la gente non ne può più! poi sti qua usano i loro luoghi di culto come copertura, per commettere reati schifosi".
"ahhhh" dice lei " sta parlando dei preti pedofili! Come don Polpo..." e scrive qualcosa sul taccuino.
"cazzo dici" fa lui "sto parlando di sti islamici finocchi repressi, sti negher e di sti zingari di merda". altra riga aggiunta sul taccuino. "io li vorrei vedere bruciare tutti, bisognerebbe annegarli da piccoli, ma fanno tenerezza come un piccolo di alligatore, poi crescono e ce ne pentiamo, ma è troppo tardi l'alligatore ti ha già morso". riga sul taccuino.
" ok" fa lei "va bene se scrivo che: -i migranti avrebbero bisogno di poltiche sociali adeguate per svincolarli dal contesto di povertà nella quale giungono in Italia al fine di evitare il loro ingresso nelle file della criminalità e per favorire l'integrazione-?"
"perfetto" fa lui, poi la scruta con attenzione, guarda come è vestita "non ti ho mai visto prima, sei nuova?" "si oggi è il mio primo giorno" "brava, allora da domani mettiti un vestito decente e levati gli occhiali, usa le lenti" dice.
e con una mano si gratta il pacco.
"come vuole, Sottosegretario. Adesso è pronto?" le risponde lei senza guardarlo, gli occhi ancora sul taccuino.
"certo facciamolo"
Lei si gira verso di me "ehi tu, dai svegliati che cominciamo con l'intervista".
Io accendo la telecamera.