giovedì 17 maggio 2012

#qchenonho, la cultura in HD e la "K"crazia dell'Aidoru


@AndreaScanzi noto "Pain in the Ass" dei programmi fabiofazisti, lo descriveva, in questo articolo dell'altro ieri, con dovizia: Quello che (non) ho (non) ha lasciato il segno.
Sostanzialmente, all'autore di questo post, non interessano le motivazioni riguardanti la fenomenologia fabiofazista (ben nota ed affrontata nel corso dei lunghi anni di Che Tempo che Fa) e nemmeno la pseudo-santificazione di Saviano (che avrà pure dei toni eroici nei suoi monologhi, ma riesce quasi sempre ad essere interessante), bensì analizzare il riflesso del programma nello specchio della società, per (tentare di) capirne le dinamiche profonde.
Al fin di evitar fraintendimenti, l' autore di questo post, ci tiene a chiarire che l'idea generale del programma -d'ora in avanti format- non è né sbagliata né scontata, anzi ambiziosa. La sua ambizione risiede nel portare al centro dello schermo televisivo dei meccanismi chiaramente anti-televisivi: il monologo e la risomatizzazione (intesa come riparazione) delle parole; questa forzatura viene infatti a pesare sulla scaletta del format il cui ritmo risultava ridondante, goffo e poco dinamico -ciò sembra ancora più strano all'autore di questo post dal momento che i ghost-writers del format erano Michele Serra e Francesco Piccolo, noti parolieri-.

Retorica
L'apoteosi della retorica, a metà strada tra una messa (commento più volte twittato durante la diretta) ed una brutta lezione universitaria di pedagogia generale. Il tono patinato e condiscendente di fabiofazio (non certo una novità) si adagiava su un generale senso paternalistico proprio della bildung più integralista (il saggio vs. i discepoli), condito con un pizzico di ineluttabilità (siamo tutti messi male). I momenti drammaticamente noiosi erano proprio quelli in cui si alternavano Grandi Personalità della Cultura, mentre quelli più toccanti erano quelli in cui persone semplici ri-somatizzavano le loro semplici parole. La stessa scelta delle parole usate, come quella delle personalità invitate, sembrava scontata e un pò troppo mainstream; per quanto a tutti faccia piacere vedere Elio Germano o Favino, o sentir parlare una staffetta partigiana -peraltro quasi conterranea dell'autore di questo post-, la monotonia era tastabile. I soggetti dei monologhi di Saviano, sempre desiderosi di raggiungere più persone possibile, incominciavano a essere pedanti e vagamente cerchiobottisti -all'autore di questo post pareva matematicamente netto il bilancio tra riferimenti al nuovo fascismo (Lega, AlbaDorata) e quelli al vecchio comunismo (Cina, e Lagoi) con una netta propensione a soffermarsi più su questi ultimi-; parole "scomode" venivano volutamente rimosse -FIAT, Esodati, Operaio- mentre altre parole "inerti" venivano sovraccaricate -Mercato, Sempre, Orizzonte, Scarpe- in un futile tentativo di elevarle a nuova narrazione del contesto sociale odierno. A causa di questo habitat, fortemente inibitorio, sono state depotenziate anche personalità come Travaglio o Paolo Rossi -con sommo dispiacere dell'autore di questo post che adora il sig. Rossi in maniera morbosa- carismaticamente forti e capaci di creare quel genere di tensione che avrebbe rianimato il format. Le uniche vere antipatie sono state:
  1. Luciana Litizzeto, orribile in tutte e tre le giornate, qualunquista all'inverosimile -l'autore di questo post sa bene cosa è un tanga e cosa è un brasiliano, grazie tante!-, con il minimo assoluto raggiunto, ieri sera, dalla frase "....Io non sono razzista, MA [questi immigrati] facciamoli lavorare a casa loro!" (come dire io non sono fascista, ma boia chi molla!!).
  2. La compulsione, ossessiva e morbosa, per Fabrizio de Andrè e per la sua canzone omonima (o quasi) al titolo del format; compulsione chiaramente di origine fabiofazista.
Cultura in HD
Nelle calde giornate di #macao il contrasto visivo (ma anche estetico) tra gli intellettuali partecipanti al format, ammantati nella patinata luce dell' HD, impegnati a promuovere una Cultura -maiuscola- saccentemente accademica, e la  voglia di nuovi spazi e temi della piazza di Milano sembrava incolmabile. La gente in piazza, "sporcata" dalla low quality dei video amatoriali, dall'audio basso e incasinato, senza bisogno di alcun ghost-writer, rusciva ad esprimere una carica emotiva ed una dinamicità assurde, senza paragoni. Non è un caso se la protesta spontanea non trova spazio nelle tre giornate di #qchenonho, nonostante il fine sia il medesimo: la promozione della cultura come evento pop (nel senso di popolare). Ed ecco quindi spiegato il senso della critica più feroce rivolta sia al format, sia ai suoi autori/conduttori: la noia originata da una "sehnsucht" del telespettatore più critico, che, affascinato dal gioco dei contrari in Vieni Via con Me  (Fazio/Saviano, Cultura/Spettacolo, Ridere/Piangere), -che all'autore di questo post (non) era piaciuto- storce il naso di fronte all'evidente disparità tra il "nuovo" format e la realtà che lo circonda. La fotografia smarmellata in HD  è il frame che meglio rappresenta questo disavanzo, la distanza tra la possibilità di immaginare nuove narrazioni ed un'espressione artistica confezionata come prodotto o format (per quanto sempre arte e cultura sia) che non può che essere percepita passivamente. In questa dicotomia si inserisce una specie di "macchina della paranoia" -o meno questa è l'impressione che ha avuto l'autore di questo post, grande fan di Philip K. Dick- che porta con sé un senso di claustrofobia, dovuta forse anche ai toni retorici di cui sopra, ed un vago senso di apocalisse incombente (cassandrismo lo definisce @AndreaScanzi), in cui l'unica via d'uscita sembra essere l'affidamento al "Saggio" di turno ed alla sua visione della realtà

La "K"crazia
Ovvero come la timeline dell'hashtag #qchenonho è divenuta difatto una realtà distopica, nella quale il teletwittatore che esprimeva la minima critica veniva trattato come "qualunquista" se non peggio (non tutte le critiche erano motivate naturalmente, ma possibile che tutti quelli che criticavano avessero torto?). Il teletwittatore pro-#qchenonho si autocelebrava nei commenti, chiedeva a gran voce di fare un format del genere ogni sera -"sai che palle" si immaginava l'autore di questo post-, ammoniva i non allineati e proponeva di occupare La7 -avete letto bene-. Il risultato era una specie di concezione vagamente dispotica dell'evento, nella quale chi aveva motivi (leggitimi o no) per non apprezzare il format, non avrebbe dovuto neanche guardarlo. Che sia qualcosa di più di una semplice impressione si evince dalla non-risposta di  Saviano a Ferrara, -l'autore di questo post prova obbrobbrio alla sola vista del giornalista oversize, ma dal momento che si predica il pluralismo si risponde a tutte le critiche- che sdogana nel telespettatore un sacro ed infervorato concetto di superiorità, che lo pone al riparo da ogni critica. Ecco la "K"crazia. La convizione assoluta che ciò che si sta facendo "è indubbiamente e moralmente giusto", la concezione figlia del cristiano  concetto di BENE sopra ogni cosa; la pretesa di pensare al duo Fazio/Saviano come il solo baluardo contro le tenebre dell'ignoranza televisiva, risulta tale e quale a quella del bimbominKia che si sciupa in commenti offensivi (pieni di K) contro chi mette in dubbio il suo AIDORU  (idolo in giapponese). Psicologicamente in questa concezione è insito l'afflato subcosciente dell'internauta, che davanti all'ignoto, rappresentato dalla vastità del cyberspazio, ricerca un' icona (spesso carismatica) in cui riversare le sue aspettative, capace di annullare il "desiderio di morte" (fenomenologia del Grillismo). Saviano è vittima di questo processo, nel senso che a causa di elementi non dipendenti dalla sua volontà (il rischio di morte, la vita sotto scorta, la popolarità), è costretto a ricoprire il ruolo di oracolo, al quale affidarsi per decifrare la realtà ed immaginare il futuro (immaginatevi l'oracolo di Matrix, la dolce signora dei biscotti che non vorrebbe dare brutte notizie a nessuno).

Certamente Twitter esisteva anche prima di #qchenonho, ma il suo recente sviluppo in termini di numero di utenti, la sua struttura basata sul contenuto e non sul profilo, ne fanno uno strumento potente in grado di generare nuove narrazioni di lotta, si veda l'hashsquatting nervi #saldi ad opera del Wu Ming, ma anche in grado di  generare luoghi comuni e retorica mainstream a profusione. Capace anche di idolatrare preventivamente uno show televisivo (si vede da commenti del tipo: "non è ancora cominciato [qchenonho] e siamo già TT mondiale").
Lo stesso Saviano cade nel luogo comune di considerare i Socials come terapia contro l'ingiustizia globale, elogiandoli per la loro utilità durante la primavera araba -l'autore di questo post si immaginava Mr Zuckerberg in kefia e AK nel deserto libico- ma dimenticandosi di dire che sono stati i ribelli a fare la Primavera e non i Socials; in seguito in preda ad un pizzico di delirio megalomane (che è sempre in agguato con gli Aidoru) si augura di riuscire a cambiare il vocabolario italiano, aggiungendovi la parola Laogai (e compiacendosi quando questa diventa TT italiano in pochissimo tempo) 
In fin dei conti, per la mia natura, sono portato sempre ad essere empatico verso l'oppresso e mai verso l'oppressore, motivo per il quale mi intristisco nel vedere Saviano invecchiato da un ruolo, che neanche lui vorrebbe avere.

mercoledì 16 maggio 2012

Perchè #M^c^o fa paura al potere?


Perchè?
E' la domanda che più persone si ponevano ieri pomeriggio.
"Perchè?" Si chiedeva una ragazza coi dreads "Perchè Ligresti lo rivuole sto cazzo di palazzo, non glie ne fregava niente fino a domenica scorsa, è stato quindici anni in disuso!!".
Uno dei pochi pochi casi al mondo in cui nella domanda è già contenuta la risposta: non gliene fregava un cazzo fino a quando alla ragazza coi dreads non gliene fregava un cazzo.
Veloce cronologia della giornata:

  1. alba: arrivano i cops
  2. poi si effettua lo sgombero senza particolari tafferugli
  3. poi arriva Dario Fo, pioniere delle occupazioni come forma artistica di protesta e con una lucidità incredibile usa la metafora del pezzo di pane per rispondere alla ragazza coi dreads
  4. poi si organizza come forma di protesta una assemblea permanente davanti a M^c^o
  5. poi arrivano vari artisti più o meno famosi a portare la  loro solidarietà
  6. poi arriva B. Rizzo che difende gli occupanti sgomberati
  7. poi si continua l'assemblea mentre arriva sempre più gente
  8. poi arriva il Sig. Sindaco e promette una nuova area per continuare il progetto nato con l'occupazione della torre Galfa
  9. infine la sera concerto pubblico, palco, etc etc
Al di fuori della cronologia degli eventi, che ha il solo scopo di chiarire a grandi linee come si è svolta la giornata, la cosa sulla quale il sottoscritto poster vorrebbe che si soffermassero le altrui coscienze è la velocità intercorsa tra la "Presa" della torre Galfa ed il suo sgombero (poco più di una settimana). Certo, direte voi altrui coscienze, in una città come Milano in cui il fenomeno delle occupazioni di spazi sociali è ostracizzato aspramente (vedi Bottiglieria) non dovrebbe stupire che il Sig. Ligresti, resosi conto di quanto stava per accadere, abbia fatto pressioni su Prefettura & C. per liberare il palazzo che attraverso una sua società gli appartiene. Non dovrebbe stupire le altrui coscienze neanche il fatto che una palazzina di 21 piani inabitata da 15 anni fosse reclamata come urgente dal suo proprietario de facto, tuttavia esiste un aspetto significativo, che nei vari tiggì, locali e non, che parlavano ieri dell'argomento è rimasto inespresso: lo sgombero era un pretesto, una provocazione (ovviamente), ma il vero motivo della repentinità dell'azione dello Stato è stato la paura. Come lo stesso Dario Fo prova a spiegare : "questi si sono cagati sotto".
ed eccoci di nuovo alla domoanda del titolo: perchè paura? perchè in meno di una settimana M^c^o è stato visitato da una media di 700 persone al giorno, partendo dal centinaio che l'hanno occupato ed arrivando a domenica scorsa ad un totale di più di duemila persone; perchè ad una struttura decrepita e senza niente (elettricità, tubature, a volte finestre) si stavano interessando persone comuni (giovani, famiglie, artisti) ed anche celebrità (Picco, Fo, Bignardi etc); perchè come si evince dai video di M^c^o Vox Populi durante le Passeggiate Verticali si incontrava dalla famiglia alla signora Nostalgica, dal giovane "alternativo" (odio questa parola) al fotografo curioso, ed in poco tempo tutta queste gente stava diventando consapevole delle potenzialità offerte da uno spazio pubblico di natura oscenamente proletaria.
Il solo fatto di essere consapevole della Potenza (non a caso in maiuscolo) che esercitava l'occupazione e la rivendicazione di un luogo dove promuovere la cultura (non a caso in minuscolo) a 360°, senza borghesismi accademici o luoghi formali di rappresentazione, faceva scattare qualcosa al visitatore, qualcosa di profondo ed intenso.
Se pensiamo al mare come metafora junghiana del subconscio, imamginatevi M^c^o come metafora del superego. La vecchia, decrepita e malandata palazzina suscita nel passante, così come nell'occupante, l' idea che attraverso l'espressione artistica (o meglio la technè degli attori tragici greci), di qualsiasi natura o forma essa sia (anche scrivere con un pennarello una poesia su un muro), si stia PRODUCENDO cambiamento. In maniera effettiva, reale.
Il Progetto M^c^o rende facile a chiunque partecipare, contribuire alla condivisione del bisogno di arte e di spazi nuovi dove rappresentarla. Costringe chiunque ne senta parlare a scegliere una parte; ti obbliga ad essere parte attiva in un processo. Ti costringe a fare i conti con la voglia biologicamente umana di conservare l'equilibrio raggiunto, e quella metafisicamente umana di esplorare l'ignoto; ti scuote perchè ti mette davanti ad una realtà che è costruita sulla coscienza collettiva e ti invoglia a essere più partecipe perchè il tuo ego ne HA BISOGNO: vero e proprio doping per il tuo spirito critico.
Ed ecco perchè Pisapia è corso ieri a tranquilizzare il popolo di M^c^o (".....Il Comune vi darà un altro spazio...."), perchè le menti erano sveglie ed incazzate; le stesse che hanno sostenuto Pisapia e l'idea sulla quale ha vinto le amministrative:  Io sono il cambiamento. Il Sindaco ha capito che si stava giocando una partita politicamente importante e si è precipitato ad offrire nuovi luoghi al Progetto (di nuovo paura).
La paura deve aver attanagliato anche Ligresti sia livello superficiale, sia ad un livello più profondo: superficialmente la paura di non riottenere la sua proprietà "inutilizzata" e quindi di perdere parte del fondamento del proprio potere (ovvero la percezione che si ha dello stesso). L'effetto immediato di questo processo è quello di produrre una risposta esagerata come manifestazione della propria capacità di influenza: "chiamo il Prefetto, il Sindaco, il Questore e vi faccio sbattere fuori"; che ricorda molto il bambino che non sapendo bene giocare a calcio urla: "il pallone è mio e non si gioca più".
Inconsciamente però si deve essere sentito come l'Uomo davanti alla giungla tropicale di Lorenz, oppure l'Uomo davanti allo spazio profondo di Ballard.
Impaurito.