venerdì 23 agosto 2013

Noi Saremo Tutto

"La velocità è il senso della vita, il senso della vita è la velocità"
 La Velocità
Il Pan Del Diavolo




Immaginate di non essere voi stessi.
Immaginatevi nei panni di due esseri umani totalmente distanti tra loro, agli antipodi di qualsiasi cosa vi venga in mente.
Immaginatevi nei panni di un importante broker newyorkese (soggetto n°1). Anzi molto meglio dell'immaginazione vorrei che usaste l'immedesimazione; voglio che sentiate sulla vostra pelle la morbidezza del completo tre pezzi Armani da 5000 US Dollars, che sentiate la brezza marina della City attraverso il vostro perfetto e costosissimo taglio di capelli, che sentiate l'odore degli interni della berlina Lexus nuova di pacca che viene a prendervi nell'atrio della vostro megaloft in Upper East Side, per portarvi al lavoro, nel cuore della City, Manhatthan, il ventre della bestia.
Facile vero? Anni e anni di retorica televisiva e/o narrativa rendono facile l'immedesimazione, ti immagini bello, elegante, profumato.
Ora, con le meningi ancora toccate da questo idillio, senza perdere la concentrazione necessaria, immedesimati in un campesino dell'america centrale (soggetto n°2), che si sveglia dopo un sonno di appena quattro ore, con le membra ancora squassate dalle 15 ore di lavoro del giorno prima, pensa al poncho usato come giaciglio, alla colazione costituita da un bicchiere di latte di capra e una foglia di coca, al carretto dello zio Josè che passa a prenderti per portarti alla piantagione. Non importa cosa coltivi o quale sia la piantagione, che sia del Cartel o di una multinazionale, se le colture siano piante di coca, marijuana o banane: la fatica è la stessa, il sudore è lo stesso.
D'un tratto ragionate sulla sequenza temporale di gesti e parole che socialmente definiamo lavoro, ma mantenete attiva nei lobi prefrontali del vostro cervello la dicotomia appena immaginata. Da un lato segretarie fighe e Consigli d'amministrazione su grandi tavoli di noce, dall'altro la terra, il sudore, il sole.
Non mi interessa, caro lettore, il tuo frame, il tuo decoder semiotico; non mi interessano le lenti costituite dalla tua esperienza e dalla tua ideologia, attraverso le quali guardi alla realtà e crei la tua interpretazione di ogni fatto, ciò che mi interessa è solo la velocità con cui i due soggetti effettivamente producono qualcosa. Il n° 2 pianta un seme oggi che ci metterà anni a divenire un albero dal quale ricavare qualche frutto, prodotto che non apparterà al campesino che lo ha coltivato e che quindi non potrà econometricamente ricavare nulla dagli anni spesi a lavorare la terra. Ecco l'alienazione. Non la noia di un movimento ripetitivo tipo catena di montaggio (con cui da anni si costruisce una narrazione tossica intorno a Marx), ma l'alienazione vera, quella tra il salariato e l'oggetto del suo lavoro, tra la merce e chi l'ha prodotta.
Ecco la metafisica del denaro, non olet, non ha provenienza, una volta che finisce nel grande circuito mondiale del libero mercato perde ogni connotazione fisica. Una volta che abbastanza denaro è stato accumulato, un bene materiale, una dimensione fisica, sparisce, perde ogni proprietà meccanica, con una legge che potremmo tranquillamente definire direttamente proporzionale alla quantità di denaro accumulato. Chi ne possiede tanto si è liberato dalla fisicità del denaro stesso e lo ha trasformato in altro, ed una volta che lo ha fatto, la velocità con cui riesce a produrre altro denaro a partire dal denaro stesso è freneticamente oscena. In pochi secondi, in qualche frammento di Mbyte su un computer aziendale, le piccole variazioni di un titolo in borsa sono in grado di generare utili spaventosi, plusvalenze enormi per alcuni, mentre condannano alla miseria programmata interi paesi.
Un'altra volta, caro lettore, non sono interessato a suscitare in te una reazione di qualsiasi tipo, voglio solo che un lato del tuo cervello pensi all'enorme quantità di ricchezza accumulata da qualche migliaio di individui o corporazioni, siano essi multinazionali o cartelli della droga o monarchi o dittatori o semplici ereditieri con una spiccata predisposizione al pornoamatoriale. L'altro lato mantienilo concentrato sulla velocità: secondi per generare miliardi di US Dollars, anni per generare una pianta.
Da questa dicotomia non si scappa, non c'è via di uscita, non è Matrix, anche se gli somiglia abbastanza. Un sistema perfetto, dolce e subdolo allo stesso tempo, che narcotizza con il benessere per risucchiarti ogni passione ogni forza vitale, ogni energia che potrebbe essere usata in una maniera che il tempo capitalistico troverebbe non opportunamente produttivo. 
Dai contrasti usati sopra, dalle dicotomie che formano "i punti di sutura" mitologici, origina il titolo del post, il titolo dell'omonimo libro di Evangelisti, lo slogan usato dal sindacato/partito IWW, Industrial Workers of the World, che nell'America degli anni '20 sosteneva i diritti degli Wobblies, lavorotari (spesso migranti) con pochissimi diritti, schiavizzati dalle nascenti corporazioni americane -è interessante notare un'altra dicotomia tra i Ruggenti anni '20 popolari nella cultura mainstream, fatti di canzonette e reggicapelli piumati vs. i veri anni 20 fatti di pochi diritti, tante botte da parte di polizia e gunthugs mafiosi, vero e proprio braccio armato dei "capitani di industria", vedasi caso di Nick Sacco e Bart Vanzetti; ogni riferimento all'epoca odierna è voluto e non casuale-.


Noi Saremo Tutto è uno slogan potentissimo, da ripetere come un mantra, un antibrand che poggia la sua potenza su un concetto tanto semplice quanto poco visibile: l'a-temporalità. Prendete ad esempio slogan posticci tipo "se non ora quando" di saviana memoria, il motto è già la condanna a morte del movimento. Noi saremo Tutto non ha tempo, non ha spazio, è inelettubile (non si può scappare dal Tutto), è minaccioso quanto basta e sopratutto interrompe la meccanica temporale del capitalismo, poichè il futuro semplice del verbo essere lo pone avanti indefinitamente nel tempo, lo cristallizza nel futuro, una dimensione non fisica, non prevedibile.
In un sistema definito caotico l'unica certezza sono le condizioni iniziali poichè gli unici modelli attendibili sono di tipo stocastico, quindi probabilistico ovvero: potrebbe succedere x, ma anche y. La realtà potrebbe essere considerato il più caotico dei sistemi, anche se spesso ci sembra prevedibile e routinaria, governata da legge e ordine invece che da imprevedibilità e casualità, ma ciononostante sembra impossibile trovare un modello probabilistico realmente funzionante con la nostra vita a causa delle troppe variabili e troppe insicurezze.


Ma se per un attimo, per un solo secondo, dopo tanto sforzo di immaginazione, alla fine di questo lungo ed inutile post, immaginando voi stessi nei panni di qualcun altro che conoscete bene, rivendicando la vostra possibilità di dare dell'IO a qualcun altro, calandovi, ancora una volta, nei suoi panni, nei suoi problemi, nelle sue aspettative (che scoprirete non essere molto lontane dalle vostre), vi ripetete dal SUO punto di vista: "noi, saremo tutto" forse correte il rischio di sentirvi meno insicuri e magari avrete trovato una piccola costante.

martedì 11 giugno 2013

Ogni storia d'amore è una storia di fantasmi




Ho imparato che il mondo degli uomini così com'è oggi è una burocrazia. È una verità ovvia, certo, per quanto ignorarla provochi grandi sofferenze. Ma ho anche scoperto, nell'unico modo in cui un uomo impara sul serio le cose importanti, la vera dote richiesta per fare strada in una burocrazia. Per fare strada sul serio, dico: fai bene, distinguiti, servi. Ho scoperto la chiave. La chiave non è l'efficienza, o la rettitudine, o l'intuizione, o la saggezza. Non è l'astuzia politica, la capacità di relazione, la pura intelligenza, la lealtà, la lungimiranza o una qualsiasi delle qualità che il mondo burocratico chiama virtù e mette alla prova. La chiave è una certa capacità alla base di tutte queste qualità, più o meno come la capacità di respirare e pompare il sangue sta alla base di tutti i pensieri e le azioni. La chiave burocratica alla base di tutto è la capacità di avere a che fare con la noia. Di operare efficacemente in un ambiente che preclude tutto quanto è vitale e umano. Di respirare, per così dire, senz'aria. La chiave è la capacità, innata o acquisita, di trovare l'altra faccia della ripetizione meccanica, dell'inezia, dell'insignificante, del ripetitivo, dell'inutilmente complesso. Essere, in una parola, inannoiabile.”


Così scriveva David Foster Wallace nel Re Pallido.
Nella letteratura o nella cinematografia (più in generale nel'immaginario collettivo) il fantasma è, anche esteticamente la rappresentazione plastica della mancanza, dell'assenza. Il fantasma è etereo, incorporeo, il suo corpo intangibile non può essere toccato dai “viventi” (le virgolette le capirete dopo), la sua presenza è spesso quella dell'osservatore immobile. Nessuno spettro apparizione o fantasma propriamente detto può interagire con la materia sensibile poichè appartiene ad un mondo Oltre-il-nostro, nel quale non esiste la dimensione fisica, ma solo quella metafisica. Nella sua condizione il fantasma ,che appare in letteratura o nella fiction, è spesso legato ad un ruolo che a fare con la sua “vita” precedente: questioni irrisolte, vendette, oppure un ruolo pedagogico, da “angelo custode”, da consigliere sulle cose-della-vita. Non vi può essere apparizione spettrale senza una mancanza, una perdita. Che sia un argomento futile o profondo, il trauma da cui origine tale perdita, c'è un filo comune che lega tutte le apparizioni spettrali, la volontà di mettere le cose a posto, di farle funzionare, di riuscire a dare un senso alla vita anche dalla non-vita. In fondo ogni fantasma è un promemoria non-vivente del tempo mancante, della caducità della condizione umana e del disperato tentativo di colmare i vuoti di uno stile di vita sempre più alienante.
Oggi non si può fare un analisi semiseria e assolutamente gratuita sugli esseri spettrali senza guardare al nostro tempo, alla nostra realtà. Nella “vita” di oggi i corpi sono sfruttati continuamente, dalle condizioni di lavoro umilianti, ai centri-tempio del fitness; da chi usa i corpi come merce a chi vorrebbe dargli un valore esclusivamente economico. Sia ben chiaro che non esistono solo esempi negativi, c'è anche chi usa il proprio corpo per migliorare le proprie condizioni o quelle degli altri, chi lo usa per difendere qualcosa o qualcuno (anche quattro alberi in un parco storico), solo per citare alcuni esempi. Ma in pochi si concentrano sulla perdita, sulla mancanza. Ed ecco che oggi il fantasma che appare all'ignaro e savissimo protagonista, non è più un fatto soggettivo, che riguarda esclusivamente le storie personali dei soggetti in causa, oggi il fantasma non può esimersi dal ruolo di esempio, di monito, e ha sempre a che fare con l'alienzione della nostra specie. Nella sua temporalmente infinita non-vita il fantasma ci ricorda di cogliere ogni attimo, di viverlo fino in fondo. Nella sua incorporeità il fantasma ci ricorda di mettere in gioco anche i corpi oltre che le menti. Nel mondo dei socials l'apparizione spettrale ci ricorda (come faceva DFW) il paradosso del nostro tempo, fatto di persone continuamente online e profondamente disconnesse le une dalle altre.
La “vita” feticizzata in una delle sue declinazioni commerciali non appartiene più allo spettro, che libero dalla società dei soggetti catturati e degli oggetti posseduti, acquisisce una nuova prospettiva che, liberata dall'azione, si concentra sull'essenziale; cosa ci può essere di essenziale per un essere senziente ma non-vivo? Proprio quella vita che oggi, continuamente, derubrichiamo ad oggetto. Proprio quella vita che molti di noi oggi stanno perdendo guardando lo schermo colorato di uno smartphone, invece di guardare negli occhi la persona che hai davanti.  


venerdì 29 marzo 2013

Qualcuno si è perso



C'è qualcuno che si è perso.
C'è qualcuno che ha perso la strada, qualcun altro la casa.
Bisognerebbe ragionare su cosa vuol dire perdere la casa, se ci stiamo riferendo all'atto dello smarrire le chiavi o vedersi pignorare l'abitazione.
C'è chi perde il lavoro. Chi perde la macchina, chi la fidanzata, chi perde un figlio. 
In fondo c'è gente che ha perso tutto e ormai non si ricorda neanche più ciò che aveva perso. 
Io non so che cosa ho perso, ma sono abbastanza sicuro di aver perso qualcosa; non so quando è successo, non me lo ricordo oppure non l'ho mai saputo, ma per certo so che mi manca qualcosa. Se sia qualcosa che ho proprio perso piuttosto che qualcosa che non ho mai posseduto non te lo so dire, resta il fatto che se uno non riesce neanche a focalizzare ciò che ha smarrito neanche può essere tanto sicuro di aver perso qualche cosa. E' una sensazione strana. Ti lascia un pò vuoto, un pò straniato.
Poi ad un tratto, a volte, la consapevolezza ti prende alle spalle, ti stende con la forza di un pugno nelle reni, ti fa rendere conto all'improvviso che cos'era quello che ti sei perso. Mi sarà capitato centinaia di volte nella vita, di essere preso a pugni dall'improvviso ricordarsi di qualcosa. Il dentista una volta, un compleanno un' altra etc etc. Anche fisicamente mi porto una mano allo fronte in un piccolo gesto di autopunizione, dandomi un leggero ma sonoro schiaffo: "ma porc....". Eppure ripensandoci ora, che penso di non aver scordato niente, non sono del tutto sicuro di ricordarmi se e che cosa ho perso.
Questa in fondo è una condizione comune al giorno d'oggi.
Se osservi i tuoi simili muoversi nella sicurezza di un ambiente affollato, come può essere un centro cittadino o un supermercato all'ora di punta, ti accorgi che tutti sembrano indaffarati, camminano da soli o in gruppo, ma si muovono svelti, determinati verso il loro obiettivo, verso la loro meta. E' solo quando li guardi attentamente, spogliandoti della fretta e della meta che ti accorgi che tutti, ma proprio tutti, sono così frenetici perchè cercano quello che si sono persi. Non importa se li osservi mentre mettono un pacco di biscotti nel loro carrello o se si accendono una sigaretta accanto a te, aspettando che il semaforo diventi verde per i pedoni. Non importa quanto esteriormente appaiano calmi, concentrati, sicuri, sono tutti mancanti di un qualcosa, mutilati da una leggera imperfezione; se provi a fermare qualsiasi persona in mezzo ad un gruppo affollato di gente sconosciuta per porgli una domanda semplice del tipo: "Scusi potrebbe mica dirmi che ore sono?" o "Gentilmente avrebbe da accendere?", avrai come risposta un gesto sbrigativo condito da monosillabi. In men che non si dica ti ritroverai di nuovo a fissare il movimento intorno a te mentre il tuo interlocutore avrà già preso il largo diretto alla sua meta. La fretta è il collante di ogni luogo affollato, il tessuto connettivo tra gli strati sociali. Se pensi a quanto la fretta sia così implicitamente accettata come costume sociale, come base di ogni relazione sociale con sconosciuti, potrebbe stupirti la facilità con cui sia entrata anche nella tua vita. La fretta, la velocità, che sembrano essere diventate la vita stessa, non sono altro che un sintomo causato dalla perdita.
A questo punto sarebbe anche lecito chiedersi: ma da che cosa deriva la perdita e la fretta di colmare questo vuoto?
E qui sarebbe lecito rispondere che è impossibile stabilirlo con precisione.
E' impossibile con metodo scientificamente approvabile, riprodurre l'insieme di cause che hanno portato l'homo sapiens sapiens ad evolversi nell'homo celerens. A noi rimane solo il sintomo, un archetipo junghiano che si agita all'interno della coscienza collettiva, che pulsa ad un ritmo sincrono a quello del progresso e dell'overdose informativa. Un archetipo 2.0, più social, che invece di costruire nella massa una struttura psicologica collettiva, de-costruisce ciò che abbiamo accumulato per generazioni; estende il tempo ad un presente eterno, ad un secondo infinito, ad un attimo perpetuo. Da un lato seduce chiunque bisbigliando al subconscio parole melliflue, con schemi ben precisi di evoluzione, ma dall'altro feticizza l'esistenza stessa.
Ed è forse proprio questo il punto di origine de "La Perdita", il peccato originale della mancanza. Oggi identifichiamo la vita con uno dei suoi molteplici feticci, condensiamo l'esistenza in una sola delle sue molteplici declinazioni. E' forse proprio questa la causa che da origine a questa specie di disabilità nella coscienza collettiva, i cui effetti sono lo smarrimento ed il dover accelerare continuamente per cercare di riempire i vuoti. Insomma si potrebbe dire che tutto origina dalla nostra umana compulsione a possedere oggetti e a catturare soggetti.
Quindi la prossima volta che chiederai l'ora ad un estraneo o camminerai in un luogo caotico ed affollato, fermati. 
E' facile rendersi conto che da fermi si gode di una prospettiva assolutamente antigerarchica, quasi zen. 
E' facile rendersi conto che da fermi è molto difficile perdere qualcosa e anche se dovesse capitarti è molto probabile che ritrovi subito ciò che avevi perso.